di Pietro Commisso
Una leggenda metropolitana (di Provincia) della “Monfalcone – Far West”
Nasco come appassionato di storia militare della Grande Guerra, un argomento che ho considerato per anni nevralgico per delineare e comprendere molti caratteri fondamentali della Comunità cui appartengo.
Questo anche prima di iniziare a capirci qualcosa.
Il Territorio della Bisiacaria, come quelli limitrofi, è tuttora segnato dalle tracce di quell’immane tragedia, tanto che non occorre allontanarsi dal sentiero segnato per accorgersi di fenditure nel terreno di indubbia natura antropica e indiscutibilmente bellica. I paesi ne censiscono ancora molte, sia in pianura che nell’altopiano: maledette e bramate un tempo, trascurate e imbonite alla meglio poi, furono per decenni mete di curiosi, spesso mal giudicati dall’opinione pubblica del borgo limitrofo. Sonai, questo il giudizio perentorio. A volte lo erano, molto spesso no.
Infine, furono “scoperte “dagli esperti di turno: appena in tempo per il centenario della loro costruzione. Centenario che nel bombardamento a tappeto di pubblicazioni, conferenze, simposi, festival, manifestazioni è stato – spesso – incapace di spiegare.
A leggiucchiare, inoltrandosi nell’argomento Grande Guerra, ci si accorge che è impossibile evitare termini geomorfologici: doline, grotte. Poi, grotte riadattate, ampliate, o costruite ex novo coi denti delle perforatrici o il potere dirompente dell’esplosivo. La guerra necessitava di prontezza ed efficienza di tipo militare, non poteva certo aspettare le ere geologiche necessarie alle gocce d’acqua per sciogliere la roccia.
La tecnologia del ‘900, tutta, riportò gli uomini in divisa a vivere nelle caverne. Novella Preistoria. Di nuovo.
Barbaria Antica recitava una stele commovente e carica di retorica e ciò a cui alludeva non era dissimile all’argomento in oggetto.
Ma le Barbarie non sono anche molti valori umani primigeni?
Carico di entusiasmo e ingenuità, spesso sottovalutando i rischi e con equipaggiamenti da pesca-sportivo, ho ceduto per anni al fascino oscuro e un po’ sinistro delle cosiddette cavità militari di cui il nostro Carso è così ricco. Del resto, mi ero lasciato da anni alle spalle i sentieri, i percorsi tracciati, le mete definite.
Non sono mai stato uno speleologo – non ho il fisico adatto – poi non sopporto gli spazi angusti e ho paura del vuoto ma del resto non temo il buio e ho un ottimo senso dell’orientamento.
Ma anche così, a ripensarci oggi, c’è da rabbrividire: niente caschi, niente tute, niente corde, niente mappe. Una torcia da due lire, una mimetica sdrucita, delle indicazioni sommarie lasciate a qualche amico o famigliare sul luogo dell’escursione. Qui si muore da eroi recitava un Pandino giuliano sprovvisto di airbag e di ABS. Minimo comun denominatore dell’escursione: non andare da soli e lasciare gli zaini senza gli equipaggiamenti essenziali all’imboccatura della cavità. Così se va male ci ritrovano: era questa la speranza che si auspicava fosse come al solito l’ultima a morire.
Non voglio coprire tutto col romanticismo ma c’era forse un rimasuglio di quel vecchio spirito pionieristico della compianta e non rimpianta “Monfalcone – Far West”: quello che animava personaggi borderline (o presunti tali), fruitori del Carso, spesso vittime e custodi dei suoi segreti. Scontrosi o chiacchieroni, lunatici o bonari erano i dropouts dei grembani e a volte li ho irrisi, sebbene fossero anch’essi parte della mia mitologia. Alcuni li ho conosciuti, molti di essi oggi mi mancano.
Questo però non basta a spiegare come, dai ricoveri militari del Carso della Grande Guerra, si possa arrivare ad un ricovero antiaereo cittadino.
L’essere dei curiosi delle cavità militari – metto in guardia, col senno di poi so che in diversi casi le cose non andrebbero fatte così ma è così che sono andate allora – non era sufficiente. Nella Galleria Rifugio dei primi anni Dieci del XXI secolo non ci si arrivava per caso, lasciando il sentiero. Alla Galleria Rifugio di Monfalcone ci si doveva arrivare un po’ alla volta, procedendo a piccoli passi e a conoscenze: non ho genealogie di famigliari alle spalle che si occupassero di queste faccende e bisognava farsi spifferare da qualcuno il modo di accedere a quel “Segreto di Pulcinella”.
Era come il Fight Club: la prima regola era quella di non parlarne. Ed era così da almeno due decenni, allora: da quando l’ultima prospezione dei tecnici del Comune di Monfalcone aveva nuovamente decretato l’impossibilità di ricavare dall’antico ricovero antiaereo un parcheggio sotterraneo1. Bontà loro, dopo almeno tre generazioni di diaframmi di occlusione – continuamente sostituiti e in seguito nuovamente perforati – pensarono forse che non valesse più la pena sigillare l’accesso, nel caso in cui si dovesse procedere a un terzo sopralluogo. A differenza di quanto pensassi quando venni a conoscenza di come accedere alla Galleria Rifugio – credendomi tenutario della rivelazione di chissà quale segreto – capii in seguito che molte persone condividevano con me questa conoscenza.
Non è possibile risalire a chi fu il primo a contravvenire alla regola di non raccontare a nessuno dove fosse il punto di accesso ma, col senno di poi, devo riconoscere che coloro a cui venne svelato il segreto furono sempre rispettosi e il ricovero non venne inquinato. Questo a riprova che i tenutari del segreto furono saggi nello scegliere chi portarsi dietro in Galleria, oltre al fatto che erano dei gran chiacchieroni. Per mia fortuna.
Come nella migliore delle tradizioni monfalconesi io lo scoprii per caso: in bar. I bar sono templi della cultura monfalconese, non perché bere sia un fatto culturale. Tutt’altro. Bere è spesso il filo conduttore – o meglio il problema – che affligge molti soggetti culturali monfalconesi.
Nei bar monfalconesi di allora – i veri bar monfalconesi che oggi saranno rimasti, forse, 3 o 4 – potevi trovare i suddetti dropouts e tra tanti discorsi insignificanti, se eri fortunato e allungavi l’orecchio al momento giusto, qualche piccolo pezzo di leggenda metropolitana (di provincia).
Due anziani speleologi di quelli con sempre addosso il giubbotto associativo si scambiano delle impressioni su un plico di fotografie dal sapore anni ’90. Sbircio nel pacchetto sorbendomi il mio caffè lunghissimo: sono foto fumose che risentono del flash che si riflette sull’aria umida di una grotta. Un giovanotto con la lampada a carburo sul casco e addosso una mimetica bipezzo della naja, vecchio modello coi topponi – uno speleologo vintage diremmo oggi – sotto lo stipite di una porta scavata nella roccia e rivestita di cemento. Sopra la testa una insegna che sembra quasi fatta il giorno prima: P.S. C.R.I. con alle estremità due grandi croci rosse.
Poi frammenti di una conversazione dal tono insolitamente basso: “tunnel” … “rifugio” … “Salita Granatieri” … “iera el ‘44”.
Poi il silenzio di chi si era accorto di aver detto forse una parola di troppo senza aver verificato chi c’era nei paraggi. Due paia di occhi si incrociano per un istante: un paio è incuriosito, l’altro è contrariato. Il plico torna rapidamente nella tasca capiente. Il discorso cambia repentinamente ammarando su una qualche banalità scollegata. Il volume è indiscutibilmente più alto. Nonchalance.
“Ormai ti ho beccato, Angelo”. Ho pensato. Non sapevo di cosa stesse parlando il vecchio speleologo ma sapevo che per scoprirlo lo avrei aspettato al varco alla prima occasione.
Conoscerne le radici
Per comprendere appieno cosa significasse conoscere il punto di accesso alla Galleria Rifugio è necessario una breve spiegazione di come essa fosse percepita fino alla metà degli anni Dieci del XXI Secolo.
Monfalcone visse la sua ora più cupa del secondo conflitto mondiale durante l’occupazione germanica e i bombardamenti aerei coincisero con essa. Il conto in termini di vite umane fu pesantissimo: la Seconda guerra mondiale combattuta dai monfalconesi – la guerra partigiana – si portò via 503 vite: fucilate, impiccate, deportate, torturate, svanite o sparse sui campi della lotta antifascista. Quella subìta – la guerra aerea – circa 120: polverizzate, spiaccicate, calpestate, sepolte dalle macerie. Questo senza contare le vittime delle insensate campagne volute dal Regime e sottoscritte dal Re d’Italia nel 1940 – 43: morti per niente se non, peggio, per vanità. Oltre seicento i caduti – la maggior parte giovani operai – in meno di un biennio sarebbero stati troppi anche per una città con ben più di 18.000 abitanti quali contava Monfalcone nel 1943. E questo è un calcolo assolutamente per difetto.
La fine del conflitto bellico non riuscì a pacificare né a lenire il dolore di quell’enorme sacrificio cittadino: odi di ogni genere avvelenavano gli animi, tormenti di vite in attesa speravano nel ritorno di scomparsi, destini non a portata dei monfalconesi schiacciavano la città. Eppure, negli abitanti vi era la volontà, ferrea, di guardare innanzi. Di raccogliere, come direbbe Kipling, i propri logori arnesi per ricostruire ciò che da altri era stato distrutto.
Il Governo Militare Alleato che amministrò anche Monfalcone dal 12 giugno 19452 dovette fare i conti con la disoccupazione dilagante: le fabbriche cittadine, il Cantiere, i motivi stessi d’essere della città erano ridotti in frantumi. Fin dall’estate di quell’anno venne diramata una circolare agli amministratori cittadini nella quale venivano sollecitati a segnalare al Comando Alleato quali fossero i Ricordi Inguardabili3 del recente conflitto mondiale ancora presenti sul territorio. La lista, dettagliatissima, comprendeva bunker, piazzole di mitragliatrici, trincee anticarro, cortine di reticolato, postazioni contraeree e bunker antiaerei. Tutte opere costruite in grande quantità dai tedeschi in tutta la Bisiacaria in funzione antisbarco.
L’idea del Comando del Governo Militare Alleato era quello di dare lavoro alla grande massa di disoccupati in attesa che i reparti del Cantiere potessero essere nuovamente capaci di svolgere la propria funzione.
L’intento però, non si limitava a questo. Dimenticare, in quei giorni, era un traguardo più semplice da raggiungere del Comprendere e, più che comprensibilmente, nessuno si oppose a quel grande procedimento di amnesia collettiva quale Terapia Postbellica.
La Galleria, che pure aveva avuto il merito di aver protetto e salvato dai bombardamenti aerei oltre 4.000 vite monfalconesi, venne tacitamente acclusa alla wishlist, sebbene fosse impossibile da demolire.
L’incidente che provocò la morte di circa 15 recuperanti che si sarebbe di lì a poco verificato4 al suo interno fu l’ultimo chiodo alla bara del ricovero antiaereo. Nei primissimi anni del secondo dopoguerra decadde definitivamente la possibilità di divenire un asse viario di collegamento con un possibile ampliamento edilizio sul fianco del colle della Rocca. Lo scenario della Galleria Rifugio quale tunnel viario, pur previsto fin dalla genesi del ricovero, decadde molti anni prima dell’ipotesi, oggi semplicemente impensabile, di costruire decine e decine di unità abitative economico – popolari sul polmone verde simbolo della città. Pur lentamente – il processo di intombamento richiese circa un decennio – il volto della città limitrofo alla Galleria venne modificato sia per ragioni di utilità pubblica sia per cancellare ogni traccia della sua esistenza.
Rimaneva la memoria cittadina, ma il tempo divora tutto. E mentre erode, deforma e opacizza la realtà.
Della Galleria Rifugio leggendaria avevo già sentito parlare a quindici anni sotto forma di una delle varie versioni di resoconto fantasioso, pur con radici verosimili: un lungo tunnel di cemento inaccessibile traboccante di armi e munizioni abbandonate dai tedeschi prima della ritirata del 1° maggio 1945.
Ammetto di viaggiare spesso con la fantasia – tutt’oggi – e il me di cinque lustri fa era molto più impressionabile dai resoconti di quello odierno ma non è che la storia delle armi e munizioni tedesche me la fossi bevuta. Anzi, mi sembrava molto strano che persone adulte, dotate di raziocinio, raccontassero simili fandonie in genuina buona fede. La faccenda del tunnel sigillato però mi aveva realmente affascinato.
Privo di fonti documentali o libri a cui attingere e ben lungi dal chiedere lumi su quella strana storia ad anzianissimi parenti che di sicuro avrebbero potuto darmi delle dritte, mi misi in tasca tutta la faccenda e tornai a perdermi in cose adolescenziali. Come era giusto che fosse.
E probabilmente questo è quanto è accaduto alla maggior parte delle persone che si siano imbattute in quella sgangherata storia di guerra: l’hanno assimilata così com’era, magari con scetticismo, tornando istantaneamente alle cose della loro vita.
Della Monfalcone dei bombardamenti aerei alleati, fino a un decennio fa, esisteva solamente il concetto di “obiettivo strategico”: esistevano dei dati sulle quote altimetriche dalla quale dei determinati velivoli, appartenente a un determinato Squadrone di una determinata Forza Aerea aveva sganciato un determinato quantitativo di bombe su un determinato obiettivo. E sotto questo mero punto di vista è meno interessante di Le Havre, di Amburgo, di Monaco, di Dresda, di Tokyo o di Berlino…
La Galleria Rifugio era indispensabile per umanizzare la freddezza di quei dati e per comprendere che quelle bombe non colpivano soltanto capannoni, gru, moli, banchine, imbarcazioni, aeroplani, fabbriche. Era fondamentale inoltre comprendere che in quei frangenti, compressi in poco spazio e spesso poco ossigeno, sotto strati di cemento, di terra, di pietra, palpitava la vita della città.
Dei pianti, dei lamenti, delle preghiere e delle imprecazioni, dei terrori e delle speranze in essi contenuti non sarebbe mai trapelato nulla se il racconto di quel “ricovero – simbolo” che è la Galleria rifugio fosse rimasto relegato al resoconto inattendibile di contenitore di armi e munizioni tedesche, peraltro inesistenti.
Per capire la Galleria Rifugio era necessario guardare meglio.
E all’improvviso…
Una domenica autunnale ad ora antelucana, anni dopo l’accaduto del bar, stavo dirigendomi sul Monte Cosich con l’anziano speleologo delle fotografie: in quel periodo era molto preso dal rilevamento di grotte non censite e la non più giovane età gli aveva imposto di portarsi dietro un “servente al pezzo”. Io, scapestrato giovinotto, accettai di buon grado quell’occasione di conoscere un Carso a me inedito, nonostante gli orari spesso bizzarri (avevo inventato “troppo presto meno un quarto” e “troppo tardi e mezza” per indicare gli orari di partenza e di rientro) e il surplus di chilometri percorsi “pedibus calcantibus” per raggiungere mete servite da tranquilli sentieri carrabili, vieppiù coi permessi dei gruppi speleologici. Con Angelo era consentito prendere la macchina solo se il luogo dell’escursione fosse stato oltre Doberdò: fin lì, qualsiasi altra meta al di qua del Timavo era raggiungibile a piedi.
Quella mattina me la sarei ricordata per due motivi. Entrambi avvennero di punto in bianco.
All’improvviso, attraversato il sottopasso ferroviario della Rocca, mi disse: vien con mi.
Si inoltrò guardingo in mezzo ai rovi che delimitavano la zona adibita a parcheggio fino a raggiungere un piccolo avvallamento: lo scomodo passaggio tra i rampicanti spinosi che lambivano la selva di graje lasciava intendere un intermittente passaggio umano e/o animale. Dopo alcuni metri di “sentiero” iniziava una breve ma ripida discesa verso quella che sembrava una piccola dolina maleodorante.
Con il naso arricciato, cercando di evitare disgustosi lembi di carta igienica bagnaticcia appesa alle fronde spinose, chiesi gentilmente se non avesse altro da fare che portarmi in mezzo ai rovi a sentire miasmi indescrivibili alle 7 del mattino.
Era stata un’uscita infelice e Angelo mi guardò in modo insolitamente accigliato, quasi cattivo.
– Te vedi quel lì? – disse indicando col dito un vecchio albero di Natale rinsecchito che spuntava da sotto un mammellone di roccia che lambiva il fondo della piccola dolina.
– Quel lì lo go messo mi! –
Cercai di prevedere mentalmente quale episodio accaduto in qualche Natale degli anni Ottanta avrebbe rievocato la conifera mummificata. Dal mio silenzioso scetticismo Angelo comprese che non eravamo sintonizzati sullo stesso canale comunicativo, quindi continuò precisando:
– Quel xe l’ingresso del Rifugio! –
Io rimasi imbambolato per un mezzo minuto buono. Angelo non disse nient’altro e risalì di gran carriera la piccola riva e scomparve tra i rovi.
Lo raggiunsi pieno di domande, allungando il passo. Dopo l’episodio delle fotografie lo avevo aspettato al varco e gli avevo chiesto delucidazioni. Le risposte furono quanto mai vaghe e discordanti: “sì, se podeva entrar ma des xè serà…”. “Lassa star che xe meio”. “De mezo passa la ferovia”.
Poi altri borbottii incomprensibili sull’attesa di improbabili notti di plenilunio. Conoscevo poco Angelo all’epoca ma la sua fama lo precedeva: non volli indagare oltre.
Poi all’improvviso, inaspettatamente, la rivelazione: un anno e mezzo prima non mi conosceva abbastanza da considerarmi un amico.
Avrei voluto entrare subito, la torcia ce l’avevamo in fin dei conti. Angelo macinava metri a una velocità impensabile per i suoi 71 anni di età: era chiaro volesse allontanarsi il più rapidamente possibile. Quasi correndogli appresso per raggiungerlo, lungo la riva della Rocca, parlavo a voce alta sollecitandolo ad entrare subito scordandoci di Monte Cosich. Quando gli fui a un metro di distanza si voltò di scatto, con uno sguardo più feroce di quello di prima: non me lo dimenticherò mai. Parlò piano, scandendo le parole: – va de notte o co la piova. Anzi, va de notte quando che sta piovindo! -.
Non gli avevo mai visto quell’espressione. Probabilmente in quei 150 metri di percorso si era pentito di avermi detto dov’era l’ingresso del rifugio. Forse se n’era pentito già indicando l’alberello rinsecchito. Sono contento però che non abbia concluso dicendomi “anzi, no sta ‘ndar proprio”. Forse, vista la perentorietà inaspettata di quell’ordine, non avrei avuto il coraggio di varcare quel passaggio e non avrei mai visto la Galleria Rifugio.
Mezz’ora più tardi rischiammo sul serio di non vedere più nulla perché, entrati nel folto di una dolina, dei cacciatori ci spararono addosso un paio di colpi da un’altana sul Monte Cosich. Fortunatamente la mira non fu delle migliori e le pallottole sibilarono tra il fogliame ad alcuni metri sopra le nostre teste: solo i nostri improperi, probabilmente udibili fin dall’autostrada, andarono a segno.
Cose che succedevano in Carso 15 anni fa e che forse succedono ancora oggi.
…iniziare a guardare meglio
Angelo non mi accompagnò mai in Galleria5 e conseguentemente impiegai mesi a decidermi ad entrarci: non era la paura dell’ignoto a ostacolarmi ma la perentorietà di Angelo nei suoi ammonimenti.
“Che ci vado a fare in Carso quando piove?” mi dicevo. “Per entrare piombo d’acqua in Galleria?”. “Poi di notte…”. Una serie di domande mi assillavano. Avrei potuto accendere la torcia lungo il sentiero? Ovviamente no, in tal caso sarei stato più visibile che di giorno. “E se mi beccano e pensano che vado a farmi le pere?”.
A ripensarci oggi mi scappa un sorriso: il vecchio Angelo c’era quasi riuscito. Con quella sua pantomima inventata nei trenta secondi in cui mi ero attardato all’ingresso del Rifugio era davvero riuscito a riempirmi di paranoie. Mi sentivo davvero tenutario di un segreto di capitale importanza e non riuscivo a capire che il suo il suo problema non era che qualche ignoto passante o abitante dei condomini limitrofi scoprisse l’accesso della Galleria: il suo obiettivo era che non ci entrassi io. Era un problema di esponenzialità: se io ci fossi andato mi sarei portato dietro qualcun altro che ci sarebbe tornato con qualcun altro ancora e che a sua volta lo avrebbe spifferato a chissà chi.
Ma io sapevo perfettamente con chi andarci e Angelo non aveva mai detto “No sta portar dentro nissun!”. Non avrei mai contravvenuto ad uno dei tre scalcinati dogmi che regolavano le nostre scorribande, tra l’altro il più assennato. I trenta secondi non erano stati sufficienti ad Angelo per rendere perfetto il suo trabocchetto.
Alla fine, con due fidatissimi amici riempiti a loro volta di paranoie dal sottoscritto, decidemmo di compiere l’impresa. Scegliemmo una serata gelida e tersa, all’ora di cena, confidando nel fatto che le condizioni meteo fossero sufficientemente avverse: la luna illuminava il piazzale ma inoltrandoci nel passaggio spinoso non si vedeva assolutamente nulla, ci si poteva solo spingere nell’unica direzione consentita dalla minore densità della vegetazione. Scesi sul fondo della presunta piccola dolina pensammo che la copertura vegetale fosse sufficiente a consentirci di accendere la torcia (di quelle tipo “Varta” – buone solo a trovare la toppa della serratura – sempre con l’idea di emettere meno luce possibile).
Al fioco baluginare ci riconoscemmo appena, estraemmo l’albero di Natale mummificato e finalmente vedemmo l’accesso: non era più largo di 40 cm. Era tardi per i ripensamenti sebbene il foro nella piastra di cemento, più simile all’ingresso della tana di una volpe, non lasciasse presagire alcunché di buono.
Entrati, dopo una breve discesa composta dai detriti penetrati dal foro in galleria, con stupore ci ritrovammo in un corridoio decisamente più ampio. Il caldo umido dell’interno apparve subito oppressivo. Accendemmo le torce vere e proprie e, ridacchiando per allontanare il senso di scomodità dell’inoltrarsi in un ambiente oscuro e completamente sconosciuto, superammo il primo paraschegge. Sul terreno nessuna traccia di passaggio umano recente, solo qualche piccola scovazza entrata col vento e il dilavio: superato il gomito del paraschegge il pavimento diveniva completamente pulito. All’improvviso, dopo aver superato delle radici d’albero cresciute tra le fenditure del cemento simili a tubi di rame, si palesava la galleria vera e propria. Bam! Sei metri di larghezza, 5 di altezza per chissà quanti metri. Non ce l’aspettavamo così imponente.
Eravamo nel totale ignoto, stavamo conoscendo la Galleria metro per metro, senza nessuno che l’avesse già percorsa a darci degli spoiler. Percorsa così, pare infinita.
La volta di cemento, improvvisamente interrotta da un enorme squarcio, risultava annerita e percorsa da innumerevoli ferite. Sofferente. Sul terreno una montagnola di terra rossa filtrata dal vistoso danno sopra di noi.
Proseguimmo. Nel silenzio, all’inizio della curva che svoltava alla nostra destra, iniziammo a sentire le nostre voci che rimbalzavano sull’ingresso tombato della Piazza, a noi ancora sconosciuto. Sembrava la voce di qualcun altro, intrappolato nello sgocciolamento continuo che si amplificava e scandiva il tempo, apparendo contemporaneamente curiosa e inquietante.
Sul pavimento una scarpa di cuoio, marcia e rigonfia: una scarpa vecchia con la suola chiodata le cui cuciture si stavano lentamente sfaldando.
Poi, metri più avanti, il corpo di un gatto mummificato. Infine, lo scheletro del topo che probabilmente aveva inseguito, perdendosi entrambi nell’oscurità a morire malamente.
Nelle grotte era facile trovare animali vivi o decomposti: teschi, ossa e residui di nidi. Non ci feci troppo caso sul momento. I destini di quel gatto e di quel topo, ma soprattutto del proprietario di quello scarpone, mi fecero rabbrividire solo in seguito, ricostruendo le mille storie della galleria.
Proseguendo nel percorso a senso unico della Galleria ci imbattemmo nella prima stanza: due ingressi per uno spazio unico. Facemmo slalom tra i tombini aperti, chiedendoci dove portassero le tubazioni.
Infine l’ingresso della stanza con le due croci rosse e la scritta: P.S. C.R.I. Dopo quasi due anni la rivedevo, questa volta dal vivo.
Paradossalmente fu quell’unico dettaglio a me noto che mi fece pensare ad una presenza umana, 66 anni prima, all’interno della Galleria. La sua mole cementizia, quasi fossile, me la faceva apparire un prodotto più appartenente al mondo minerale che a quello antropico. Nel suo cupo silenzio e nella sua squallida staticità facevo persino fatica a pensare che qualcuno avesse provato dei sentimenti al suo interno.
La verità è che non sapevo niente: non solo dei bombardamenti aerei della Seconda guerra mondiale su Monfalcone, ma della città stessa. Avrei dovuto guardare meglio, scansare i pregiudizi, inoltrarmi su sentieri non tracciati che non erano semplicemente quelli del Carso. Non bastava l’emozione di aver visitato una “leggenda metropolitana” di Provincia. Ma in quel momento, sottoterra, ero contento solo di quello.
Improvvisamente un rombo proveniente dall’esterno, poco distante da noi: veniva dalle nostre spalle e aumentava di potenza fino a stabilizzarsi, per poi scomparire. Ci mettemmo poco a capire che avevamo superato la linea ferroviaria e di essere praticamente alla fine della nostra visita.
Le due scritte “Per Ammalati” e “Vigili del Fuoco” erano un nuovo ammonimento al dolore che in quel luogo si era provato ma noi – io sicuramente – mi meravigliai solo del loro stato di conservazione.
La visita finiva praticamente lì. L’ultimo tratto, quello che ci avrebbe portati in Piazza della Repubblica, era tombato – imbonito come direbbero i vecchi – da rocce e detriti di cemento.
Rientrammo elettrizzati, notando per la prima volta l’effetto del “Teletrasporto”: l’inedita esperienza che potevi solo provare uscendo dalla Galleria di quei tempi, ritrovandoti improvvisamente nel traffico, le luci, il vociare. Nella Galleria, dove il tempo scorreva diversamente, sembrava di aver conosciuto una dimensione in cui il concetto di “causa-effetto-sillogismo” fosse solo parzialmente applicabile secondo i nostri standard.
Era forse il fatto che allora “si respirava ancora l’aria di quei tempi là”, tristemente o con il sollievo del caso. Le nostre vite, fuori dal tunnel, scorrevano placide coi loro cascami tardo adolescenziali: chi studiava, chi cercava di recuperare tempo, chi si bagolava. Ad accendere la televisione vedevi le autobombe a Baghdad o al limite che la Francia aveva attaccato le truppe di Gheddafi a Bengasi. Era roba grossa in realtà, ma le sirene erano ben lungi dal suonare in qualche angolo d’Europa: la Guerra Fredda pareva un concetto relegato al passato, da film degli anni Ottanta. Nessuno di noi si era mai chiesto cosa significasse passare un pezzo della propria vita in un tunnel e forse, e sottolineo forse, quella prima visita alla Galleria Rifugio qualche “rispostina” ce l’aveva data. A me sicuramente aveva lasciato molte domande e non era cosa da poco. Ma avrei dovuto, ancora una volta e per numerose volte a venire, guardare meglio. Aguzzare la vista.
1 La prima risaliva al 1984, la seconda al 1990.
2 Il G.M.A. amministrò il territorio di Monfalcone e parte di quello di Gorizia dal 12 giugno 1945 alla fine di settembre del 1947.
3 Letteralmente Unsightly Reminders of the recent conflict.
4 Notte tra il 24 e il 25 agosto 1945. Alle circa 15 vittime dell’incauto maneggio degli esplosivi abbandonati dalle forze armate germaniche dopo la ritirata del 1° maggio del 1945 in quello che fu, nell’ultimo periodo bellico, il deposito di munizioni della Galleria, bisogna sommarsi le 5 vittime della calca del 1° maggio 1944.
5 Ad oggi, ottobre 2025 non l’abbiamo mai visitata assieme. Considerando l’età e il suo stato di salute immagino non accadrà mai.
